Conosce mille strade, la poesia.
Per percorrerle, ha solo bisogno di suoni.
Puo' esprimersi in maniera complessa con suoni semplici, o in modo semplice e diretto con mezzi complessi.
Puo' essere non intenzionale, il brusio del vento, il fragore di una cascata, il canto degli uccelli e tutti i suni della natura possiedono la loro poesia.
Puo' essere al contrario meditata, stilizzata, programmata con gli artifici tecnici piu' sofisticati.
La poesia dei suoni ha questa sua propria virtu', sa scaturire dal piede pestato per terra, ad invocare il risveglio della natura, come nelle piu' arcaiche cerimonie (e danze, e musiche) dell'umanita'; e sa venire fuori dai computers, con o senza il controllo e l'intenzione di un agente umano.
La poesia, come si dice, e' nell'aria. Ogni mezzo e' buono per raccoglierla.
Le radici del jazz sono elementari: il nucleo poetico dello swing sta forse nello strusciare un piede per terra, con quella pensosa indolenza che sa stimolare le fantasticherie piu' pigre e visionarie.
O forse la sua poesia piu' autentica risale alla percussione del proprio corpo, dei propri risuonatori fisiologici, poesia della solitudine piu' selvatica ed arcana, ed abita ancora presso i piu' umili mestieri per strada: il lustrascarpe che serve e ritma il tran-tran della metropoli, con la tremenda poesia delle sue quotidiane apocalissi.
Evolvendosi, il jazz moderno aveva perso molto: smarrendo il senso piu' semplice e del dramma urbano e della gioia pagana, e non riuscendo a riconoscere, se non con estremo ritardo, i percorsi poetici delle tecnologie.
Oggi certe barriere mentali vanno cadendo, anche la storia del jazz andrebbe riscritta, o almeno precisata.
Le tecniche di sovraincisione da parte di un unico polistrumentista rislagono in effetti ad un musicista ancora tradizionale come Sidney Bechet (1941); le manipolazioni e accelerazioni di nastri magnetici a Lennie Tristano (1955); il dialogo con se stesso ottenuto sovraincidendo improvvisazioni condotte sullo stesso strumento, a Bill Evans (1963).
Il filtraggio elettronico degli strumenti a fiato attraverso il Varitone fu sperimentato negli anni Sessanta da sassofonisti, diversissimi per stile, quali un Cannonball Adderley e un Lee Konitz; alla fine di quel decennio Mike Nock e poi Joe Zawinul adotteranno il modulatore ad anello, antenato del sintetizzatore, e pochi anni piu' tardi Miles Davis munira' la sua tromba di un pedale wah-wah.
I trucchi di registrazione, i trucchi elettronici sono dunque storicamente acquisiti: fanno parte, oramai, di una modernita' gia' classica.
Perfino gli arnesi contemporanei, dai delays ai computers, vanno classicizzandosi.
Ogni resistenza ideologica e' destinata a cadere, e sopratutto deve cadere quella prevenzione che fa definire 'trucco' ogni artificio poetico.
Un editing inteso a manipolare una registrazione gia' effettuata, un harmonizer che moltiplichi il suono in intervalli polifonici, equivalgono alla matita con cui appuntiamo un pensiero distratto, in un frammentario momento di poesia, tra una corsa e l'altra delle nostre frenetiche giornate.
E' in questo spirito, credo, che andrebbe ascoltato questo disco.
Fresu ha la sua tromba di ottone.
Di Castri il suo contrabbasso di legno, le cui virtu' gia' conoscevamo; Tattara (che sara' invece una rivelazione per molti) ha la sua chitarra.
Qualche effetto elettronico, qualche editing del produttore, qualche guizzo del mixer fanno il resto.
Una session puo' nutrirsi di sudore o di codici binari, di vertigini umane o algoritmiche, e produrre in ogni caso il risultato voluto: colori...incanti...poesia...
Alla fine, chi l'ha creata la riascolta e le da un nome.
Questa volta, la chiameremo Opale.
Gianfranco Salvatore